GLI ALBERI SONO I MIEI FRATELLI

Nel 1969, i miei genitori acquistarono un appartamento nel condominio dove abito dal 1990, qui, sotto la Presolana. Era la classica seconda casa, per le vacanze estive. In quegli anni, le vacanze erano vacanze: due mesi qui, un mese al mare. Avventure sconfinate prima con Salva, nato nel 1966, poi anche con Guido, nato nel 1973. Nei due condomini, quasi tutti occupati da famiglie come noi di villeggianti, si formavano compagnie di quindici, venti ragazzine e ragazzini. Praticamente una piccola tribù che andava ad aggiungersi ad altre piccole tribù di “invasori milanesi” (siamo tutti milanesi, noi non bergamaschi: “milanesi” è da decenni un nuovo sinonimo da sottoporre all’attenzione dell’Accademia della Crusca). Nel concludere i lavori edilizi, il nostro piccolo giardino fu seminato per fare crescere alcuni alberi; l’essenza principale, l’abete. Tutto intorno vi erano solo campi e questi condomini certo non facevano una bella figura nel paesaggio rurale, stupendo, di questo paesino. Dopo ci hanno pensato bene e così si è costruito ovunque, disordinatamente, come è tipico dell’Italia senza un senso del paesaggio (del resto, neanche la nostra Costituzione fa cenno alla Natura, all’Ambiente, al Territorio, al Paesaggio, significativamente). Siamo cresciuti insieme, noi e questi abeti: anche perché da trent’anni a oggi, ci siamo visti quasi ogni giorno con questi sei abeti. Qui, li chiamano paghér. Nel 2009 è nato Leonardo. I bambini sono pochi in estate e quasi zero nel resto dell’anno. In quel piccolo giardino protetto dagli abeti e da una betulla, Leonardo è cresciuto, ha conosciuto la sua prima neve, che facevamo cadere per divertimento dai rami (liberandoli dal peso quando era tanta). Ma in quel giardino erano cresciuti ad esempio Jacopo e Anna, nostri vicini di pianerottolo fin dai primi anni in cui venni qui ad abitare. Ed erano cresciuti anche Nicola e Mattia, oltre che Riccardo, Armando e Marilena, e poi Matteo e Federico, Eric… con noi “vecchi”. Io stesso ho iniziato a togliere alcuni rami troppo pesanti, nelle zone basse, mi sono dilettato a comprendere alcune cose, grazie alla sua presenza in giardino. Lo stesso i miei bellissimi nipoti, William, Ambrita, Marco, Matilde, che trascorrono molto tempo con noi sopratutto in estate. Da quando abbiamo una stufa altoatesina, che ricicla il calore e lo diffonde (si, è ecologica: acquistiamo solo legna che viene da vicino, anche se costa di più, paradossale, ma vero), ho imparato a capire che da queste parti i paghér sono considerati male. Serve più legna per produrre lo stesso calore, poi c’è la resina. Insomma, “sono alberi del cazzo”. Sappiamo della visione della natura in montagna: se serve bene, se no, rompe il cazzo. E così spesso nelle riunioni di condominio sembra che la presenza di questi fratelli alberi sia come quella di chi scappa da un mondo difficile e vada rispedito agli abissi del Mediterraneo: vade retro! Pericolo! Ma il pericolo è nella loro mente, io penso. In una sensibilità che manca proprio dal software originale. Giro, cammino, ascolto. Deglutisco ascoltando certe scelleratezze che smacchiano l’idealismo sulla “cultura di montagna” (se non ti piace qui, vai da un’altra parte: la frase più gettonata quando poni dei dubbi. Si vede che nessuno ha letto “La saggezza del dubbio” di Alan Watts. Leggetelo, vi farà bene). Non è che in trenta lunghi anni non abbia elaborato. E si, trovo persone sensibili, capaci di andare oltre la visione utilitaristica: poche, ma ci sono.

Circa un anno fa, noto degli strani segni su tre abeti: colpi d’ascia (ne ho una anche io di ascia, perdio!). Gli alberi feriti, la resina rappresa. Allora alzo gli occhi sul più esterno, e vedo – colgo – la maledetta idea per assassinare la pianta: la cercinatura. Invio una foto a un caro amico forestale, che mi conferma l’azione avvenuta. Dopodiché chiamo un amico boscaiolo, che osserva, e dice la stessa cosa. Infine settimana scorsa viene un arboricoltore che conferma a uno dei due amminsitratori l’azione vigliacca: la cercinatura. Lui, l’arboricoltore, da professionista lo definisce “intervento di cercinatura” e da uomo sensibile, non trova molto bella questa azione. Perché in effetti salire lassù a otto metri d’altezza, tra i rami, non è azione da umarell che critica il cantiere stradale come nelle vignette. E’ azione pensata, esiste un mandante, e c’è stato dunque un esecutore. Così, dopo avere richiesto diversi preventivi, fatta la scelta dell’incarico da affidare, ieri c’è stato l’abbattimento e l’addio a quei tre amici abeti. Perché? Perché adesso le zone morte di questi alberi uccisi, nel pensiero degli aggressori, erano finalmente e inequivocabilmente pericolose. Prima vIl dolore per me è compensato dal sentire, sempre, le connessioni con la natura che anche noi siamo. Ne facciamo parte, ma nella nostra cultura occidentale, questo non è ben chiaro. Anzi, la natura è altro: va sfruttata, aggredita, sottomessa. Infatti, si vede bene a che punto ci siamo ridotti: settantamila anni di homo sapiens, ne sono bastati tredicimila dalla rivoluzione agricola e addirittura solo tre secoli di rivoluzione industriale per ridurci a non sapere come gestire le risorse naturali. Badate bene: la Terra andrà avanti, quando ha un virus, coi suoi tempi (per noi lunghi), sa come guarire. Si può fare legna, sì. Ma con rispetto, perché  «öna pianta rasgàda l’è mai ü bèl laùr»: non così, non per queste ragioni. E’ la storia dell’umanità in una piccola storia di condominio: prima vogliamo il giardino per dire, Guardate che bella casa che abbiamo. Poi, lo vogliamo abbandonare. Pare sia accaduto così, per chi crede alle fiabe, anche con il giardino dell’Eden. Dal quale, se ricordate, siamo usciti per andare in giro a razziare qualsiasi risorsa possibile e immaginabile pur di soddisfare il nostro ego, la nostra avidità, in definitiva, la nostra infelicità.